Quello che i libri dicono
di Mariolina Cosseddu
Il destino artistico di Wanda Nazzari è segnato, fin dagli esordi, da una dualità di attitudini che si rivelerà solo nel tempo ma che trova da subito il suo punto di confluenza in uno degli aspetti più significativi del suo percorso: i libri d’artista.
La dedizione alla poesia, la cura della parola che si fa verso lirico da un lato, e la sua attività manuale, più propriamente quella scultorea dall’altro, convergono in un complesso meccanismo che convenzionalmente chiamiamo libro e che, nel suo caso, diventa un formidabile dispositivo per accedere alle pieghe più segrete di un’artista-poeta.
Quando, nel 2020, Wanda Nazzari dà alle stampe una raccolta di liriche brevi e intense che rivelano una passione cullata negli anni e tenuta gelosamente celata, sa con esattezza che quella forma verbale è componente imprescindibile del suo percorso e di cui si è nutrita la produzione pittorica e scultorea. Un’ammissione che toglie il velo a un bisogno narrativo in forma di poesia che l’ha accompagnata e protetta, un assillo che è stato e continua a essere un’urgenza dolorosa e catartica allo stesso tempo ma anche la consapevolezza della funzione che il dettato poetico ha avuto nella formulazione di un linguaggio visivo così autenticamente sentito. Il libro d’artista è la manifestazione più eclatante di un intreccio linguistico e di una condizione dell’animo che investe la poetica come la stessa visione del mondo della sua autrice.
Alle spalle del libro d’artista c’è una lunga e affascinante storia che attraversa il Novecento e che assume spesso toni rivoluzionari e provocatori prima di codificarsi in uno degli strumenti più idonei a rappresentare l’intimo sentire di chi lo crea, una sorta di cartina di tornasole in grado di svelare gli aspetti più nascosti dei suoi artefici. Da questo punto di vista, nella produzione di Wanda Nazzari, la comparsa, di volta in volta, dei libri d’artista svolge un ruolo chiave di sperimentazione di nuovi procedimenti e nuove tecniche compositive, legando l’attività artistica al contesto storico e sociale che l’ha generata, e stringendo così, in un unico binomio, l’arte e la vita.
I lavori che si connotano come libri creano, infatti, nella sua produzione ben più vasta e riccamente articolata, un sentiero così decisamente personale e necessario nella formulazione di un costrutto fisico ma ad evidente densità lirica da farne, dal mio punto di osservazione, un nodo cruciale di convergenza di istanze diverse e complementari.
Intanto ad accomunarli intervengono le dimensioni, sempre ridotte, di oggetto da tenere in mano, come un libro da leggere appunto, tanto che, in quella formula intima e maneggevole, è già espresso il desiderio amorevole che l’ha mosso e il piacere che ne deriva.
In realtà cosi delicati e fragili da pretendere attenzione allertata, quella che si riserva alla preziosità di un manufatto da preservare dall’incuria dei giorni. Più di quanto non si creda i libri sono legati al sentimento del tempo che altera e distrugge le cose e che, con un più vasto giro di pensieri, potremo pensare come simboli contemporanei di quella “vanitas” che la cultura seicentesca attribuiva alle nature morte, dove peraltro non era estranea la presenza di libri. Ci sentiamo allora autorizzati a pensare che altrettanto accada nei lavori di Wanda Nazzari dove i fili stramati, le stoffe lacerate, le carte strappate e i brandelli di scrittura creano quella precarietà delle cose che è coscienza della transitorietà del tutto.
Ma non possiamo, allo stesso tempo, che pensarli come “xenia”, dunque, nella duplice versione di nature immobili e di doni che i Greci offrivano agli ospiti cari. La dedizione e la cura con cui sono realizzati non può non farci sentire la sacralità del dono in cui si riflette il ritratto privato dell’artista.
C’è un momento in cui il libro d’artista si materializza in una modalità abbreviata quanto poetica: sono le Pagine-nido e siamo nel 1994 (pag. 278). Fin da questa fase si genera, nella sua opera, un organico connubio tra la struttura del libro come fogli scritti e la concezione del nido così cara e ricorrente nella sua produzione. Che cosa tiene unite le due forme apparentemente lontane? Se la scrittura diventa la trascrizione di un vissuto personale intimo, legato alla sua necessità di espressione lirica, la visione del nido è già metafora di “utero, culla, luogo del sentire e del creare” (Zaru, 1994): si capisce allora come entrambe le procedure rispondano ad unico sentimento della ideazione artistica, a una stessa prassi manuale e concettuale concatenate in un armonico sistema estetico. Nasce ora quella che potremo chiamare la poetica del frammento, declinata sia come zolle di legno o stoffa colorata sia come minuti brani di scrittura sospesa in una composizione che già di per se è afflato lirico. Ma è anche naturale che le due forme espressive possano vivere indipendenti l’una dall’altra, come assistiamo in “Riconciliazione” (1998), pagine bianche attraversate da formule in ebraico, lingua del cuore di Wanda Nazzari: qui si rivela, più che altrove, la sua ricerca del sacro e il suo rapporto con la spiritualità sofferta e macerata nell’animo come nella caparbietà con cui incide sulla carta le lettere di un alfabeto criptico.
Con “Interlinea” del 2004/2006, approfondisce e amplia le ricerche precedenti. In particolare quelle sulla materia. Si precisa qui, per dare frutti anche negli anni a venire, quel senso tattile e visivo della carta densa e porosa che accoglie i segni incisi a secco smerigliando le superfici rese così sensibili alla luce. Lavorìo di mani abili e sapienti, di cura maniacale per i dettagli, di giochi raffinati di sovrapposizioni e occultamenti, di opposte tensioni che oscillano tra pieni e vuoti, tra scrittura e silenzi, tra leggerezza e resistenza. Tutto in progettato equilibrio. Tutto risponde al bisogno antico di introdurre piccoli inserti di sillabe minute e regolari tra le pieghe delle pagine frastagliate e strappate per invitare lo sguardo a frugare al di là dell’apparenza. A cercare metaforicamente l’essenza delle cose, appena intravvista nell’inchiostro rosso che segnala l’anima segreta di involucri impalpabili. Ed è solo l’inizio di un lungo itinerario artistico che sui libri tornerà con rinnovata sorpresa.
Quando, nel 2001, idea “Il cerchio aperto”, compie un passo decisivo verso una concezione installativa destinata ad assumere, nel tempo, forme di grande impegno concettuale e strutturale che richiedono sempre attenta e silenziosa contemplazione. Acuita dal bianco che domina e avvolge la composizione, questa vive nell’ambiente necessariamente vasto per consentire la visione ancora frontale ma con un evidente sollecitazione a cogliere la complessità del rapporto tra lo spazio e la vita dell’opera. Le eleganti strutture lignee dei leggii avvolti di tessuto, che sostengono pagine di immacolato candore, è momento che si imprime nella coscienza come visionaria metamorfosi di un contesto terreno trasferito nelle regioni del sublime.
La forma perde la sua consistenza materica e diventa pura visione di luce che si manifesta nella simbolica apertura delle pagine come nella sofisticata trasparenza della tarlatana che impreziosisce la natura delle cose.
Con questa opera Wanda Nazzari indaga una condizione primordiale dell’esistente dove, nei nidi-embrione che si dispongono sulle superfici accoglienti e velate, sembra evocare l’origine della vita prima della vita stessa, nuclei di materia che fermenta e pronta a spiccare il volo.
L’immagine dei leggii che invitano alla lettura, mentre offrono il contenuto segreto del loro messaggio, è destinata a diventare iconografia personale e identitaria della stessa autrice, mai paga della sua ricerca e già proiettata verso altri approdi.
Fino al momento aurorale di questo percorso: “Discesa a zero” , un’operazione installativa che si rinnova nel tempo e che la occupa dal 1998 al 2014.
Wanda Nazzari insiste sulle simbologie, sull’universalità iconografica, sulla suggestione seduttiva del manufatto: la struttura piramidale, sollevata dal piano-terra, diafana nella visione che sfiora l’astrazione del tutto, non può non evocare valori eterni di bellezza come metafora del divino, di immacolata purezza che rimanda al trascendente, di assoluta compostezza nella apparizione delle scritture come sigilli magici. La sua appare, davvero sentita, capacità di azzeramento dei travagli terreni per muoversi in uno spazio interiore di pura meditazione spirituale che trova dunque la sua più compiuta espressione nella “discesa a zero”, dunque nella possibilità di rinascita. E che cosa, sembra dire l’autrice, se non l’arte può assicurare il percorso verso quella conquista? La prassi artistica diventa allora non solo fine ma processo in itinere che vede nella perfezione della forma l’espressione della coscienza finalmente pacificata. Perciò deve risplendere di luce propria, raffinata nella impaginazione, moltiplicata nella sequenza, unitaria nella struttura che la contiene. Intensamente evocativa, l’opera è luogo di silenziose corrispondenze, arazzo ricamato con le lettere incastonate delle lingue del mondo (ebraico, greco, arabo), messaggio che sollecita l’emozione mentre rivela la luminosa verità che contiene. Non certo dissimile la concezione che sostiene “Intervallo”, l’opera del 2006, dove Wanda Nazzari idea una installazione che interagisce con lo spazio e richiede una visione circolare dei tre momenti di cui si compone. Ritornano gli inginocchiatoi che sostengono i libri-scultura e che ribadiscono l’uso del bianco come fonte di luce incarnata nella stessa forma. Mani pietose sembrano aver fasciato di bende la nuda struttura lignea degli inginocchiatoi che accolgono come immacolati leggii le pagine di testi sacri, intoccabili e illeggibili se non nella visione simbolica del tutto. Una struttura scultorea che richiama il sentimento della preghiera come bisogno primario dell’essere, come atto di fede e di speranza sulle sorti dell’umanità redenta. Un atto di umiltà tutta umana, gli inginocchiatoi, al cospetto dell’immensità divina, di pietas terrena nella metafora così emozionante di accettazione dell’eterno incommensurabile.
Il lavoro di Wanda Nazzari, se osservato nel suo svolgersi nel tempo, appare come un organismo coerente e strettamente concatenato tra le parti che lo compongono, come la ramificazione di una poetica che si sviluppa per forza propria, per una implicita necessità di crescere e ampliare i nuclei del già compiuto, rafforzandone i contenuti e rinnovando i mezzi espressivi. Così, se guardiamo da vicino le opere che si collocano tra il 2006 e il 2010, non potremo non ritrovare i fili che legano questi lavori alle opere precedenti ma con una nuova vitalità e una sorprendente affermazione di inesausta creatività.
Se con “Il cerchio aperto” l’artista aveva avviato la ricerca sulla condizione primigenia dell’essere, con “Origine” (2009) completa il percorso conducendolo verso un corpus di opere singole ma pensate come sistema organico. Si tratta di un complesso di opere di cui sono parte integrante sette libri di legno inciso e dipinto e ricoperti di tessuto di rame lacerato. Ad accomunarli l’uso del viola e della scrittura incisa. Il viola appare essere, nella poetica di Wanda Nazzari, il contraltare del bianco: colore intenso e saturo, in questo caso venato di ruggine (risultato di una lunga indagine sui toni dell’arancio che vira ora nei più dolorosi timbri ossidati), il viola è una sorta di luogo dell’anima, di cifra stilistica che ricorre in tutto l’itinerario artistico. Declinato in toni differenti, acceso dal contrasto con gli aranci infuocati, precipita talvolta in toni cupi e oscuri, e si dà sempre come emozionalità forte eppure controllata; imperioso e tirannico, tragico e lirico, non lascia scampo allo sguardo e chiede una risposta impellente. Non poteva che affidare al viola, dunque, il senso recondito di queste pagine su cui trascrive brani delle lettere paterne in un’azione di memoria personale consegnata alla storia di ciascuno.
Il resistente tessuto di rame che li ricopre si apre e si strappa mettendo a nudo brandelli di sillabe amorevolmente custodite secondo la modalità che coniuga il libro al nido e fa dei libri-scultura forme singolari quanto prepotentemente suggestive.
La stessa magica alchimia che governa “Da luoghi sospesi”, lavoro composto da una serie di pagine bianche che custodiscono nidi colorati dove il tessuto stramato si fa scrittura in forma di fili sdruciti e pendenti come segni sfuggiti al controllo ortografico.
Ancora una volta Wanda Nazzari preme sulla efficacia visiva e tattile dei materiali, sul senso lirico del frammento lacerato, sul connubio esaltante dei toni caldi e freddi, sul mistero che si annida al di là del visibile.
La bellezza della forma cosi strenuamente perseguita, seppure fondata su strutture compositive mobili e mai definite o chiuse, è sempre mezzo per ottenere la massima intensità semantica, come se, nel suo mondo poetico, non possa esserci senso se non nella raffinata e ardente ricerca segnica e strutturale. Vale a dire che la sua appare un’arte elitaria e sontuosa, estranea ai linguaggi postmoderni e controcorrente rispetto alle ideologie dilaganti del quotidiano. Ciò a cui non rinuncia mai, sino a farne momento centrale del suo operare, è la dimostrazione della sapiente manualità del suo fare.
Un legame viscerale sembra legare le sue mani al sentimento della materia che lei tratta con uguale metodica e stesso intendimento: legno o carta, tela o tessuto, modella infaticabilmente i supporti per trasformarli in corpo vivo, doloroso o quieto, seguendo un progetto in divenire, un progetto che si compie e si realizza solo nel suo farsi mentre asseconda la risposta della materia stessa.
In questo contesto, a partire dal 2014, prendono vita i “Libri tessili”, ancora una volta pensati e realizzati come oggetti unici seppure moltiplicabili nella struttura compositiva di volta in volta variata. Il tessuto di cotone fa ora da contrappunto al velo trasparente dei fogli di rame che, come pagine aperte, custodiscono i piccoli nidi di legnetti sovrapposti e circondati dalla scrittura appena visibile nei caratteri minuti e composti.
Si tratta di composizioni articolate sulla duplice percezione del manufatto che, nella stratificata materialità, intesse un gioco raffinato fondato, come ormai ci ha abituato a leggere il suo lavoro, sulla relazione degli opposti: consistenza e leggerezza, svelamento e nascondimenti, bianco e viola come categorie dialettiche che approdano all’armonia del tutto. E che conservano quel nucleo tematico che continua a fare del nido il luogo più vissuto nella esperienza poetica dell’artista.
Che con i libri tessili ha saputo intrattenere un dialogo formale davvero seduttivo, come quello realizzato nelle opere del 2014 e quelli del 2017: qui il colore viola inonda il tessuto che si è fatto scrittura, filo che avvolge e stringe mentre cede e si allenta e scopre l’arancio che ribolle nelle anse segrete del suo cuore nascosto.
Il viola precede e anticipa le soluzioni che sempre nel 2017 Wanda Nazzari otterrà con l’uso del nero, affidato a “Da cieli strappati”, una delle composizioni più drammatiche del suo percorso. Il corpus di opere in nero mostra con immediatezza il valore di denuncia, e perciò di pianto di fronte alla perduta innocenza della chiesa cristiana, affidata all’azzeramento cromatico e luministico e alla struttura spezzata e faticosamente ricomposta dove anche la fascinazione della forma sembra spegnersi irrimediabilmente.
Resta il buio della condizione tragica dell’esistente. L’artista si misura così con i grandi eventi della storia e partecipa con il suo lavoro a quel grido di dolore delle forze vive della società civile. Le sue opere si trasformano in grandi mitografie visive in cui occorre entrare in punta di piedi. In questo caso il libro nido acquista maggiore significato se concepito nell’insieme unitario del sistema compositivo scandito da un ritmo incalzante e dal cupo dominio dei toni privati di luce. E completato dalla presenza di croci mutili, recise e perciò instabili, che acuiscono il senso del lutto storicamente inaccettabile e di un silenzio eticamente colpevole.
Dalla sofferenza, dice Wanda Nazzari, ci si può sollevare solo se si è toccato il limite estremo oltre il quale si può accedere, se la mente è stata preparata, alla lenta, simbolica risalita. Un processo di illuminazione a cui l’artista si è sottoposta e da cui deriva “Grado zero”, l’opera della rinascita. Ma questa è già un’altra narrazione estetica.